10 giugno 1940: l’Italia dichiara guerra alla Francia
Dopo settimane di discussioni con i comandanti dello stato maggiore e contatti contraddittori con la Germania nazista, il 10 giugno del 1940 Mussolini decide di attaccare la Francia
Una decisione a lungo osteggiata dai vertici militari, consapevoli dell’inadeguatezza delle forze italiane e delle difficoltà tecniche dovute al confine alpino.
La Francia, ormai, sta già discutendo l’armistizio con la Germania, quando arriva la dichiarazione ufficiale di guerra da parte dell’Italia.
La firma franco-tedesca avvenne il 22 giugno 1940, seguendo quel rituale vendicativo voluto dal Führer di utilizzare il vagone ferroviario dove era stata firmata la resa tedesca nella prima guerra mondiale.
All’articolo 23 del trattato, i tedeschi avevano già inserito la clausola dell’armistizio obbligatorio con l’Italia, che spinse il generale Huntziger, capo delegazione francese, a dichiarare preoccupato:
«Gli italiani potrebbero chiederci con un sovrapprezzo del tutto ingiustificato anche ciò che voi non ci avete chiesto. L’Italia ci ha dichiarato guerra ma non ce l’ha fatta».
In effetti, solo dopo undici giorni dalla dichiarazione ed isolate azioni aeree e di mare, l’esercito italiano lanciò l’offensiva di terra sul fronte francese, ottenendo dei risultati disastrosi.
Il 21 giugno iniziò la Battaglia delle Alpi Occidentali, come viene ricordata dagli storici. Una battaglia che doveva dimostrare la forza bellica dell’Italia imperiale e che invece si risolse in una vittoria di Pirro.
Infatti, la Francia aveva dislocato sulle Alpi una linea di fortificazioni moderna e ben armata, disposta su tre livelli successivi, che non solo respinse i tentativi di assalto italiani, ma causò gravi perdite al nemico.
L’esempio più famoso fu la distruzione del Forte dello Chaberton, nei pressi di Briançon e territorio francese dopo l’armistizio del 1945, costruita dagli italiani ad oltre 3.000 metri di altezza (era la fortificazione più alta d’Europa), ma concepita con schemi del tutto inadatti alla tecnologia militare della seconda guerra mondiale.
Il risultato fu la totale distruzione del forte da parte dei mortai francesi, che infatti cessarono il fuoco ancora prima che, il 25 giugno, venisse siglato l’armistizio tra Italia e Francia a Villa Incisa.
Il 24 giugno, in pratica l’ultimo giorno di combattimento, la linea difensiva francese era stata appena toccata nei suoi avamposti.
Ovunque le truppe francesi presidiavano intatte le loro postazioni e la loro prima linea di resistenza non era nemmeno stata scalfita, come peraltro ammetterà persino lo stato maggiore italiano nei suoi studi.
L’unica località di un certo rilievo occupata dalle truppe italiane e che in seguito diventerà territorio italiano fu la cittadina di Mentone.
Ma anche qui la battaglia per la sua conquista si dimostrò per gli italiani un bagno di sangue.
Pur riuscendo ad entrare nella città litorale, l’armata italiana contò 631 morti (59 ufficiali e 572 soldati), 616 dispersi e 2.631 feriti, a dimostrazione delle insufficienze dell’equipaggiamento italiano.
I francesi catturarono 1.141 prigionieri che restituirono immediatamente dopo l’armistizio. I prigionieri francesi, ufficialmente 14, verranno spediti nel campo di Fonte d’Amore, vicino Sulmona, dove si aggiungeranno in seguito 200 internati britannici e 600 greci, che probabilmente finirono nelle mani dei tedeschi dopo l’armistizio.
Da parte francese si ebbero 40 morti, 84 feriti e 150 dispersi, oltre ai prigionieri.
Nonostante la Francia fosse occupata per metà dalle armate tedesche, l’attacco italiano si dimostrò un totale disastro militare, con perdite ingenti che non giustificavano assolutamente i risultati ottenuti.
Il trattato di Villa Incisa, infatti, era molto distante dalle pretese che Mussolini aveva presentato a Hitler durante il loro incontro a Monaco.
Il testo presentato prevedeva delle clausole molto ridimensionate, che vennero accettate subito dai delegati francesi e la mossa stupirà gli stessi tedeschi, che avevano approvato quasi completamente le richieste italiane formulate a Monaco.
In esso era prevista l’occupazione da parte italiana di alcuni territori francesi di confine, che con il decreto del 30 luglio verranno annessi de facto al Regno d’Italia, la smilitarizzazione del confine franco-italiano (la zona segnata in giallo chiaro nella cartina) e libico-tunisino, entrambi per una profondità di 50 chilometri.
Inoltre fu prevista la smilitarizzazione della Somalia francese (odierno Gibuti) e la possibilità da parte italiana di usufruire del porto di Gibuti e della ferrovia Addis Abeba-Gibuti.
Infine, venne prevista la demilitarizzazione delle piazzaforti navali di Tolone, Biserta, Ajaccio e Mers-el-Kébir.
Complessivamente i territori annessi dall’Italia avevano un’estensione di 832 km² ed una popolazione di 28.523 abitanti.
Mentone, che al tempo contava 21.700 abitanti, era l’unica località di un certo rilievo.
In questi territori, come avverrà più tardi in Slovenia e Dalmazia, si avvierà un tentativo di italianizzazione con l’utilizzo della toponomastica italiana, lezioni in lingua italiana e altro.
Un dramma nel dramma, in tutta questa vicenda, lo vissero le numerose famiglie italiane che erano emigrate in Francia prima della guerra.
Nel 1940, gli emigrati italiani in Francia erano circa 800.000, provenienti soprattutto dalle vallate alpine.
Molte famiglie risultavano in pratica sparpagliate nei due Paesi, il che aumentava le similitudini linguistiche, sociali e culturali lungo il confine.
Il conflitto sulle Alpi Occidentali ruppe questo tessuto di relazioni sociali e portò la guerra in un territorio che non la vedeva da oltre cent’anni.
Anche se l’espressione «pugnalata alla schiena» entrò nell’uso comune solo nel dopoguerra, serpeggiò fin da subito nella popolazione francese, ma anche in tanti italiani che vivevano in Francia, la sensazione che l’aggressione fosse stata una sorta di «colpo a un uomo morto» e un tradimento a un Paese amico.
Oggi, Francia ed Italia sono due nazioni fondamentali dell’Europa e ci sembra quasi impossibile che, solo qualche decennio fa, due popoli fratelli si siano fatti la guerra solo per la sete di potere e l’ego smisurato di un dittatore.
Per questo è giusto ricordare ciò che è successo, a memoria di chi non ha vissuto quelle vicende e che da per scontate delle certezze di pace e di convivenza che, per chi c’era, scontate non furono.