Quando hai la testa piena di pensieri e la notte si avvicina hai due possibilità.
La prima è di lasciare che quei pensieri si sviluppino senza freni, in un crescendo rossiniano che alla fine ti lascia incapace di chiudere occhio. Resti tutta la notte a fissare il soffitto oppure ti alzi, vai in bagno, come se in quello spazio buio e piccolissimo potessi rifugiarti dall’assalto di quelle parole, di quelle immagini che non permettono a Morfeo di stringerti nel suo abbraccio letargico. Se non funziona vai alla finestra, guardi giù in strada dove, minuto dopo minuto, la presenza umana lascia progressivamente tutto lo spazio ed il tempo disponibili alle ombre, ai gatti, ai topi e ad altre creature della notte non meglio identificate.
La seconda è quella di riuscire istintivamente a staccare la spina, trasformarti in un essere completamente decerebrato, incapace di ripetere il proprio nome, dimentico di ciò che hai fatto cinque minuti prima, di cosa hai mangiato a cena.
Ma hai mangiato?
Ecco, allora in quello stato semi-vegetativo da zombie, il sonno riesce a travolgere la resistenza dei pensieri che affollano la tua testa e, come d’incanto, ti addormenti. Dormi di un sonno pesante, senza sogni, al massimo qualche suono ripescato dalla cronaca della giornata.
Lo squillo del telefono, la sirena dei pompieri per strada, una radio che suona a volume troppo alto, il rumore di sottofondo dei viaggi in metro.
Nient’altro.
Ed è ciò che mi accadde quella notte. Ero talmente stravolto dai fatti di quella giornata vissuta con l’adrenalina sempre a mille, un’altalena di emozioni fortissime che obbligarono il mio corpo a dire “basta” al tourbillon di immagini che lo affogavano chiudendo le palpebre alla ricerca di un po’ di tregua.
Dormii profondamente e, nonostante lo stress del giorno prima, quella mattina mi svegliai bene ed in orario. Il quel momento potevo pensare ad una sola persona: Monica Bellucci.
Quando me ne resi conto mi scappò un sorriso davanti allo specchio, mentre mi radevo.
“Ma come? Amandine è in ospedale, scampata ad un infarto che avrebbe potuto ucciderla e tu? tu pensi a Monica Bellucci e all’intervista…”. Mi era costato mille sforzi, imparare a concentrarmi sul momento, a fare attenzione solo a ciò che mi stava impegnando in quella minuscola frazione dello spazio-tempo universale.
Così avevo a disposizione la motivazione giusta per spicciarmi, uscire per strada ed avviarmi verso la stazione della metro di Belleville. Presi il primo convoglio della 11 che arrivò, strapieno, e notai che, man mano che si avvicinava a Châtelet, i vagoni si svuotavano; era l’ora di punta.
A Châtelet scesi e mi avviai verso la linea 7, che mi avrebbe portato a due passi dalla destinazione finale: la dimora della diva italiana del cinema che aveva fatto di Parigi la sua città, la sua casa.
“Come me…”, mi risuonò dentro la testa, ben consapevole che non ci fossero molti altri punti in comune con lei. Già era straordinario che una celebrità del suo calibro aprisse la propria casa per un’intervista. Di solito il set si organizza in suite d’albergo, possibilmente con panorama esterno in grado di catturare il pubblico oppure, in mancanza di vista sulla Tour Eiffel, Montmartre, Arc de Triomphe o Louvre, vengono affittate alla bisogna delle abitazioni di lusso, per offrire agli occhi dei fans una “casa da sogno” in cui immaginare la vita privata della celebrity amata.
Arrivai in leggero anticipo e ne approfittai per aspettare nel viale i due tecnici della troupe che avrebbero fatto il sopralluogo con me quella mattina. Non conoscevo praticamente nessuno di loro e sarebbe stato un bel segnale presentarmi all’équipe prima di entrare nel palazzo.
Alle 8 e 30, puntuali come una cambiale, eravamo attaccati al citofono e salivamo i pochi scalini dell’androne che ci separavano dall’appartamento della star.
Il sopralluogo durò esattamente un’ora, come previsto. Fu scelta la posizione più adatta alle riprese in uno dei saloni che affacciava sul boulevard, quello che offriva la luce naturale migliore. Feci una verifica delle necessità tecniche: prese di corrente, movimenti di macchina, spazi necessari agli spostamenti della troupe. L’assistente personale della Bellucci controllò l’ora in cui la registrazione sarebbe stata effettuata, per decidere il trucco e l’abbigliamento più adatti a mettere ancora più in risalto la bellezza della sua principale. In tutto questo, la Bellucci andava e veniva, parlava al telefono, il normale comportamento di chi è a casa propria ed è arrivato l’idraulico a controllare lo scarico della lavatrice.
Alla fine ci salutò, molto cordialmente e si concesse giusto una battuta quando si accorse del mio accento italiano. Non potevo davvero pretendere di più, come debutto lavorativo.
Prima di salutare i nuovi colleghi, approfittammo di un bistro vicino per definire gli ultimi dettagli preparatori. Poi ognuno tornò alla propria vita e ai propri pensieri.
Fu così che Amandine riemerse nella mia vita. Mi ero ripromesso che sarei andato a trovarla nel pomeriggio, ma l’ospedale non era lontano. Da mezzogiorno le visite erano permesse, avrei potuto evitare di aspettare ore prima di poterla rivedere. E forse questa volta avrei potuto anche parlarle.
La visita
Camminando lungo il boulevard per arrivare all’ospedale cercai di usare quel momento di calma per immaginare cosa avrei detto ad Amandine quando fossi entrato nella sua camera. E non mi veniva in mente nulla che mi convincesse.
La mia testa era vuota, non riuscivo a pensare. Ero immerso in uno stato di dispersione mentale, quando non si riesce a mettere insieme due concetti logici due, come se il cervello dovesse ancora smaltire la bevuta della sera prima. Ma non c’era stata nessuna sbornia.
Così mi accorsi dello stato d’ansia che era improvvisamente esploso dentro di me. Non capivo il senso di quella sensazione, non riuscivo a controllarla.
Arrivai all’ospedale e mi avviai verso il reparto in cui Amandine era ricoverata.
Alla reception c’era un’infermiera al telefono. Quando mi avvicinai al bancone mi sorrise e, senza parlare, il suo labiale mi disse “arrivo subito!”. Feci un paio di passi indietro, abbassando lo sguardo sul pavimento, mentre intorno a me medici, personale sanitario, visitatori e pazienti andavano e venivano, come se fossero gli interpreti di un balletto organizzato per distrarmi da quella situazione.
Chiusa la telefonata, la ragazza mi sorrise di nuovo e mi avvicinai.
Era una ragazza nera sui trent’anni, i lunghi capelli ricci ordinati in treccine africane che, ogni volta che le guardo con attenzione, mi chiedo quanto tempo serva per ottenere un risultato così bello e complesso. Sul camice un’etichetta agganciata al taschino mi diceva che lei era Awa Qualchecosa, un cognome che mi fece venire il mal di testa al solo tentativo di lettura. Evidentemente lei era abituata a quegli sguardi interrogativi, sfoderò nuovamente il suo sorriso smagliante e mi disse, avvicinandosi al mio orecchio, “si legge E J O A K A… ma non lo dica a nessuno: è troppo divertente vedere le vostre facce, la prima volta che lo leggete!”. Feci immediatamente il timido, cercando di nascondere il fatto che anch’io, evidentemente come molti altri, ero cascato nel tranello fonetico di quel cognome complicato. “Uno dei tanti cognomi africani della Martinica, la mia terra…”. Poi improvvisamente cambiò registro, si trasformò in una perfetta macchina professionale e mi chiese chi cercavo. Le dissi che ero un amico di Amandine e desideravo vederla. Mi diede immediatamente il numero della camera, senza bisogno di cercarlo sul registro dei ricoveri, e mi indicò dove trovarla. “Segua il corridoio fino in fondo, svolta a sinistra e troverà la seconda camera a destra, la 302. La sua “petite amie” è lì…” e sorrise ancora una volta.
Evidentemente il suo intuito femminile (e il mio atteggiamento da imbranato) le aveva fatto capire che Amandine non era una semplice amica, per me.
La ringraziai e iniziai a camminare lungo il corridoio, chiedendomi come facesse, Awa E J O A K A, a dispensare tutti quei sorrisi in un ambiente così complicato, stressante e faticoso come sa essere un ospedale. I miei pensieri si fermarono improvvisamente di fronte alla porta della camera di Amandine.
“Cazzo, non ho neanche portato dei fiori!..” ma la meccanica del mio corpo era già andata oltre quel pensiero tardivo ed imbarazzante. Bussai alla porta ed entrai.
La camera era a due posti, ma il letto a destra era deserto. Quello al suo fianco, verso la finestra, era occupato da Amandine.
Era sdraiata su un lato, il viso rivolto alla porta. Mi guardò mentre mi avvicinavo a lei, ma era come se non mi vedesse.
“Ciao Amandine, come stai?”
Anche in quel momento, appena quella frase era uscita dalla mia bocca, la parte cosciente di me urlò. “Lo sai che dice che la chiami per nome solo quando hai qualcosa di negativo da dirle! e tu?.. arrivi e la chiami per nome. Bravo, bell’inizio!”
Improvvisamente lei mi vide, alzò lo sguardo verso di me, guardandomi come se fossi rientrato dopo essere andato un attimo alla toilette e fossi lì da ore, alzò un po’ uno dei due cuscini che aveva sotto la testa e disse “Bene. Sto bene. I medici dicono che all’inizio della settimana prossima mi possono dimettere.”
Abbozzai un sorriso. “Beh, è una buona notizia, no?” - Amandine si prese qualche secondo prima di rispondere. “Sì, certo. Ho sentito mia sorella, andrò da lei per un po’. Ha tre bambini ancora piccoli, un aiuto le sarà utile.”
“Mi sembra una buona cosa” - le dissi - “sono sicuro che ti servirà per recuperare meglio dall’incidente… e verrò a trovarti nel week-end, se tua sorella è d’accordo.”
Amandine si prese di nuovo qualche secondo prima di parlare. “No. Non venire.”
Un pugno inaspettato nello stomaco mi avrebbe fatto molto meno male. La guardai.
“Ho bisogno di ripensare la mia vita, Marcello. Tutto quello che ho fatto finora, per cui ho vissuto, è completamente andato. Non ci sarà un futuro nella danza, per me. Non ci sarà un futuro a Parigi, probabilmente. Di sicuro non c’è un futuro in cui noi due staremo ancora insieme.”
Non riuscivo a dire nulla. Sentivo il sangue pulsare nelle mie tempie, mentre il resto del mio corpo era irrigidito da un gelo polare.
“Cosa devo fare, allora?” - Amandine si voltò a guardare il soffitto della camera. “Passerò da casa con mia sorella a prendere le mie cose. Verrà giù in macchina, così posso portarmi quello che mi serve. Il resto… puoi farne ciò che vuoi.”
Continuavo a guardarla come se la vedessi per la prima volta. Ma non come era successo a Torino, quando l’avevo conosciuta. Era una sensazione a 360 gradi da quella. Era un’Amandine, a 360 gradi da quella.
Cercai di darmi una faccia un po’ più dignitosa di quella che dovevo avere avuto durante quella conversazione surreale. “Va bene. Allora fammi sapere se devo fare qualcosa, come posso aiutarti…” - “non mi serve il tuo aiuto, Marcello. Non preoccuparti, non è colpa tua… non hai fatto nulla di sbagliato.”
Mi sembrava un dialogo uscito dalle storie di quelle coppie di fidanzatini in cui quello che ha deciso di rompere dice all’altro “non sei tu, sono io! è tutta colpa mia…” e intanto non vede l’ora di uscire a gambe levate da quella storia.
Mi alzai dalla sedia, per un attimo mi dissi di darle un ultimo bacio ma la parte cosciente di me rifece capolino. “Lascia stare che è meglio…”
“Alors je vais… chiamami se hai bisogno…” - la più banale frase idiota che si possa dire in quei momenti. Un classico.
Uscii dalla camera come se la compagna di stanza di Amandine fosse nel suo letto a dormire di un sonno comatoso, cercando di annullare completamente la mia presenza fisica in quella situazione, come se fossi capitato lì per sbaglio.
“Perché in questi momenti non si può schiacciare CTRL + Z come sul pc, quando vuoi annullare un’operazione?..”
Tornai all’ingresso. Mentre mi avvicinavo alla porta mi accorsi che Awa era sempre lì, parlava al telefono mentre una dottoressa guardava dei documenti di fianco a lei. Mi guardò con il suo solito sorriso da sciogliere i ghiacci, ma più mi avvicinavo più quell’arma di felicità di massa svaniva dal suo viso.
Chiuse rapidamente la telefonata e, mentre la dottoressa continuava a guardare i suoi reperti, uscì dalla postazione e avvicinandosi mi disse “che succede? qualcosa va male?” - domanda retorica, avrei risposto, ma lei non se la meritava. Sembrava perfino sincera. Chissà quante volte le capitava di dover fare i conti con la tristezza ed il dolore dei pazienti e dei loro cari.
Mi ascoltai mentre una frase usciva dalla mia bocca senza il benché minimo filtro razionale. “Non capisco… non vuole più vedermi… così, senza un vero motivo…” Awa mi prese per le spalle, scrollandomi e sfoderando ancora il suo sorriso sciogli-tutto: “mi devi raccontare tutto. Dammi la mano!” Mi prese la mano sinistra, prese dal taschino una biro ed iniziò a scrivere sul palmo della mia mano. “Questo è il mio numero. Prendiamoci un caffè, se ti va, e ti racconterò di quante volte ho visto scene come la tua… altrimenti, se non vuoi parlare, andiamo al cinema!” e il sorriso si trasformò in una risata che mi lasciò allibito, strappandomi a tutta la tristezza e la confusione di quel momento. Era una risata forte, ma non troppo forte… era… musica! ecco, era questa la sensazione scatenata da quella risata.
“Beh, grazie. Ti chiamerò appena supero la fase suicidio…” le dissi, scoprendo che anch’io stavo sorridendo come uno scemo.
Ci salutammo con lo sguardo ed uscii dall’ospedale. E dalla vita di Amandine.